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Export e qualità dei prodotti agroalimentari

2025-05-07 12:46

ANDREA SONNINO

EXPORT,

Export e qualità dei prodotti agroalimentari

È opinione largamente condivisa che il sistema agroalimentare italiano non possa competere a livello internazionale per la produzione di derrate alime

È opinione largamente condivisa che il sistema agroalimentare italiano non possa competere a livello internazionale per la produzione di derrate alimentari, se non puntando sulla qualità delle produzioni alimentari. Le ridotte dimensioni territoriali delle coltivazioni, unite alla frammentazione fondiaria e alla conseguente prevalenza di aziende agricole di dimensioni medio-piccole, non permettono difatti di operare le economie di scala necessarie a ridurre i costi di produzione a livelli comparabili a quelli in essere in altre aree geografiche. 

 

Le particolari condizioni pedoclimatiche presenti nel nostro Paese, il ricco patrimonio di tradizioni e saperi esperienziali dei produttori agricoli, insieme a una diffusa adozione di pratiche agricole fortemente innovative, permettono infatti al sistema agroalimentare italiano di ottenere l’eccellenza in molti comparti produttivi. L’ottima reputazione internazionale della cucina italiana permette inoltre di completare la narrazione dei prodotti agroalimentari italiani – dal campo al piatto del consumatore - e rappresenta una promozione decisiva per la loro esportazione, che nel 2024 ha sfiorato il valore complessivo di 70 miliardi di euro. 

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Al di là dell’indubbio successo dei prodotti agroalimentari italiani sui mercati internazionali, è importante capire cosa vogliamo dire quando parliamo di alimenti di “qualità”. Nel linguaggio di tutti i giorni la parola “qualità” è usata spesso come sinonimo di eccellenza o comunque di pregio, ma la qualità di un prodotto alimentare, come quella di una persona o di un oggetto, non può essere considerata come una categoria astratta, una variabile indipendente dal contesto, dai gusti dell’acquirente o dalla utilizzazione che se ne vuole fare. Il concetto qualità è infatti intrinsecamente legato alla capacità di soddisfare le aspettative del consumatore per una specifica finalizzazione. E qui appare evidente il legame dei prodotti alimentari con le tradizioni gastronomiche italiane. 

 

 

La qualità, viene difatti definita dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI) come «l’insieme delle proprietà e delle caratteristiche di un prodotto o di un servizio che conferiscono ad esso la capacità di soddisfare esigenze espresse o implicite» (norma UNI EN ISO 8402:1995), o come «il grado in cui un insieme di caratteristiche intrinseche soddisfa i requisiti» (norma UNI EN ISO 9000:2005). La qualità dei prodotti alimentari non è quindi oggettiva, ma soggettiva (dipende da chi è il consumatore e da quali sono le sue aspettative espresse o inespresse) e specifica (varia a seconda della utilizzazione che il consumatore ne vuole fare). 

 

Ma quanti e quali sono i criteri utilizzati per determinare la qualità di un prodotto alimentare? Per effettuare le scelte di acquisto si considerano consciamente e inconsciamente sei aspetti sempre applicabili: le caratteristiche organolettiche, igienico-sanitarie, salutistiche (nutrizionali e funzionali), di origine, commerciali ed etico-ambientali. A questi sei aspetti se ne aggiunge uno – le caratteristiche tecnologiche - applicabile solo in casi specifici, quando cioè il prodotto debba essere sottoposto a particolari processi culinari. 

 

Alcuni aspetti, come quelli organolettici, soddisfano esigenze espresse (l’alimento deve avere buon gusto, aspetto attraente, aroma piacevole), sono facilmente percepiti e quindi influenzano direttamente la scelta del consumatore, mentre altre caratteristiche, come gli aspetti chimico-nutrizionali e igienico-sanitari, rispondono a esigenze implicite (l’alimento deve nutrire e non deve nuocere alla salute) e necessiterebbero di complesse valutazioni analitiche, per cui influenzano solo indirettamente le decisioni dei consumatori finali, ma sono ovviamente tenute in gran conto dai distributori commerciali.

 

Per quanto riguarda i prodotti agroalimentari esportati, l’indicazione – e quando del caso la certificazione – della loro origine riveste una particolare rilevanza. Il cibo, infatti, oltre ad essere la fonte degli elementi nutritivi necessari per il nostro sostentamento, ha assunto anche una connotazione identitaria, spesso stereotipata, utilizzata per identificare le comunità umane e per migliorare la loro coesione. Molti popoli vengono spesso designati dal nome del loro cibo preferito, in genere con intenti dispregiativi, cosicché gli italiani sono identificati in molte parti del mondo come “macaroni” o come “spaghetti”, i francesi sono chiamati “rospi” o “mangiarospi” e i tedeschi “kartoffeln” o “mangiacrauti”. E quando ci riferiamo al cibo, ci riferiamo sia alle materie prime agricole usate, ma anche ai modi di conservarle, trasformarle, cucinarle, presentarle e consumarle. 

 

Ogni cucina è quindi custode del patrimonio memoriale di un popolo, tramandato di generazione in generazione, non per questo immutabile, ma in continua rielaborazione. L’export agroalimentare italiano non si limita quindi a commercializzare prodotti, magari eccellenti, ma veicola cultura identitaria e valoriale nazionale. Non si vendono quindi salsa di pomodoro in scatola o caffè tostato e macinato, prosecco o parmigiano-reggiano, ma si trasmette uno stile di vita denotato dall’appagamento dei sensi più che dalla soddisfazione delle necessità funzionali dei consumatori. Il mito della dieta mediterranea, foriero di salute e di longevità, completa il quadro dell’immagine di prodotti agroalimentari finalizzati al piacere sensoriale, ma al contempo salutari. Un’operazione di marketing collettiva, forse inconsapevole, ma coronata comunque da grande successo.

 

La buona accoglienza riservata dai mercati internazionali ai prodotti agroalimentari italiani ha promosso competizione, non sempre leale, da parte degli altri produttori. Nasce così fenomeno di contraffazione imitativa noto come Italian sounding, la commercializzazione cioè di alimenti con denominazioni, presentazione o confezione che inducono il consumatore a supporre un’origine italiana, anche se prodotti in tutt’altra zona geografica. Il fenomeno è difficilmente contrastabile mediante battaglie legali, sia perché eccessivamente diffuso, sia perché le legislazioni di molti Paesi non proteggono adeguatamente l’indicazione dell’origine dei prodotti agroalimentari. E comunque le azioni legali sono costose e di risultato incerto. 

 

L’Unione Europea ha quindi creato nel 1992 i sistemi noti come DOP (denominazione di origine protetta), IGP (indicazione geografica protetta) e STG (specialità tradizionale garantita) per promuovere e tutelare i prodotti agro-alimentari che si distinguono da prodotti analoghi perché provenienti da determinati territori o derivati da particolari tecniche. Altri schemi di certificazione volontaria dell’origine dei prodotti alimentari si sono affiancati a DOP, IGP e STG.